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MARIO SCHIFANO
'70'80'90


Oggi l’analisi dell’opera di Mario Schifano e il suo contributo alla pittura (e al cinema, alla fotografia, alla letteratura, alla musica) rafforza il dibattito sulle arti, permettendo - attraverso una giusta distanza critica - di “spazzolare” il lavoro del grande artista dalle incrostazioni che una untuosa sottocultura ancora tenta di alimentare, senza scalfirne - ovviamente - il valore e l’unicità nel panorama non solo italiano. Nutrire dubbi sulla personalità artistica di Schifano mette i detrattori al di fuori di ogni possibile disputa, innanzitutto per l’internazionalità della sua figura che lo rende inattaccabile per la sua stessa storia complessa e completa che lo posiziona, tra i pochi artisti italiani del suo periodo,nel più vasto circuito delle arti. Nato a Homs, in Libia, nel 1934, ritornato con la famiglia in Italia nel clima di rinnovamento del dopoguerra, Mario Schifano rappresenta un punto fermo della Pop Art europea, qualità che lo inserisce perfettamente nel clima internazionale degli anni , ma che non limita la sua stravagante ricerca, difficile da perimetrare all’interno di uno spazio troppo definito. L’adesione al “movimento” della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo assieme ad artisti come Francesco Lo Savio, Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni e l’irrequieta frequentazione di personalità della cultura tanto diverse tra loro, formano un personaggio eclettico, curioso, con una onnivora capacità di assorbimento pronta ad esplodere ed incarnarsi in ogni sua opera. I suoi viaggi e le lunghe permanenze negli Stati Uniti alimentano la conoscenza, allargano la sperimentazione, modellano l’artista facendone un uomo di mondo a tutto tondo. ‘70‘80‘90 offre allo sguardo la singolare produzione di trent’anni di lavoro, presentando il risultato di un artista certamente maturo e affermato, ma che non ha mai smesso di crescere. Di più: questa mostra permette di soffermarsi non solo sulla crescita stilistica dell’artista ma anche sulla sua parabola umana fatta di adesioni ed affetti, sulla sua coerenza partecipativa fatta di corpo e di pelle alle variazioni che il trentennio considerato ha portato con sé in termini diconsolidamenti e stravolgimenti culturali, politici, sociali. La pittura di Mario Schifano ne registra gli umori, il disappunto o l’approvazione: sono gli anni della crisi delle ideologie, in cui si sgretolano le certezze, si infrange il “sogno americano” da un lato e l’utopiacomunista si scopre in antitesi con libertà e progresso.


‘70. Sono gli anni della multimedialità che entra prepotentemente nel modus operandi di Mario Schifano. Immagini televisive riportate direttamente su tela emulsionata vengono esaltate od isolate nel perimetro della tela, svelandosi in maniera straniante. Persiste tuttavia il senso pittorico: anche quando l’immagine fotografica sembra avere il sopravvento, la rapidità del gesto pittorico emerge per velature, stratificazioni e sgocciolature che interrompono ogni staticità e confermano l’importanza dell’intervento del colore. Lavorare sull’immagine significa fare tabula rasa dell’Informale e della materia e, in questi anni, Schifano ripensa alla bidimensionalità della pittura, alla leggerezza e alla trasparenza della visione. Nonostante l’attrazione tecnologica, la natura rimane il centro privilegiato della sua ricerca. Il rapporto tra umano e naturale, visto attraverso la lente dell’arte, della cultura, della tecnologia, è comune a tutto il suo lavoro. E nella sperimentazione di questi anni la natura entra nell’opera dell’artista non come dimensione assoluta ma come ambito relativo alla propria condizione di artista e di uomo partecipe di una modernità che ha nel progresso il punto di riferimento. E forse per questo appare in forma malinconica: alberi e paesaggi sono accennati, sembrano vivere in cattività, sbiaditi come una rievocazione. Emulsioni, collage e fotomontaggi sono sostituiti da smalti diluitissimi. Sono gli anni dei “Paesaggi anemici”, delle “Vedute interrotte”, degli “Alberi” ritratti in solitaria luce. I diversi piani prospettici, l’insorgere di particolari, la sovrapposizione di perspex e plexiglass, inquadrano immagini sempre meno definite e sempre più mentali. Natura e artificio si confondono come in un grande schermo televisivo.


Mario Schifano è soprattutto artista e pittore, nel senso più intrinseco del suo significato, e come tale va per prima cosa considerato: e questo va evidenziato in virtù delle sterili discussioni sulla sua figura, sulla quale spesso si è detto e scritto senza tenerne conto. Ed è invece l’aspetto più importante e tangibile, che maggiormente lo caratterizza e che più ha influenzato parecchie generazioni di artisti. Questo “girare attorno alle cose” è vizio comune tra chi si interessa di personaggi che più di altri hanno inciso sui comportamenti propriamente artistici. Com’è avvenuto, per esempio, con Richard Wagner, il musicista su cui più si è detto e scritto rimanendo anni luce lontani dal nocciolo reale della questione, ovvero il valore e la modernità - unica e contaminante - della sua musica e la sua influenza su tutta quella successiva. E qualcosa di simile, crediamo sia avvenuto con Schifano; artista che come pochi altri ha influito sulla pittura e sul comportamento artistico e forse per questo fra i più invidiatie chiacchierati. E questo non tra le file dei numerosissimie molteplici collezionisti, ma proprio fra gli artisti stessi, fra i numerosi pittori che ne hanno saccheggiato segno e densità. Fedele alla sperimentazione ed alla pittura (alla pittura che ha vinto e che negli anni Ottanta ritorna prepotente con la Transavanguardia di cui è precursore), Mario Schifano attraversa il “Sessantotto” dell’arte opponendo al concettualismo la forza straripante del colore, al grigiore del “poverismo” il rosso sangue della lotta e della contestazione, della ricerca della vita fuori dagli schemi e fuori dalle mura. Lo Schifano del “NO” gocciolante, impresso nella memoria collettiva per quelle migliaia di manifesti poi utilizzati per una campagna referendaria degli anni Novanta. E’ questo, se vogliamo, il Pop di Schifano, se proprio dobbiamo imbrigliarlo nei limiti delle correnti: ma con una marcia in più che gli viene dall’essere italiano, romano e latino, Marco Polo e Cristoforo Colombo, figlio del Rinascimento e del Futurismo, per questo aperto alla dialettica ed al confronto, sensibile alla diversità, curioso all’eccesso. E’ pertanto naturale l’attrazione per gli opposti, che nella sua ricerca confluiscono in un nomadismo che supera la dialettica tra figurazione ed astrazione, sapendo raccogliere contributi da entrambi i fronti per indicare una direzione meno rigida e per questo veramente moderna; ragione che ancora oggi rende la sua opera più attuale di ogni altra ricerca del secondo Novecento, per la capacità affabulante con cui ha disegnato e descritto, con parole nuove, tutto ciò che ci circonda e che è rientrato nello spettro di luce dell’artista nel corso di una vita, concentrando, negli spazi dell’opera ansie, paure e significati di un secolo.

‘80. La densità della pittura e la forza del colore ritorna prepotente, complice l’affermarsi del Neoespressionismo tedesco e della Transavanguardia, più volte anticipata dalle ricerche di Schifano. Il suo stile è nuovamente sconvolto: la trasparenza è sostituita da una corposità muscolosa, viva e palpitante. Rimane il consueto scatto, la stessa velocità e lo stesso nervosismo del gesto che genera continui movimenti ed impennate all’interno dell’opera. Non muta l’esigenza dello spazio (le grandi dimensioni sono sempre state le preferite da Schifano) che è sempre luogo del ricordo e dell’esperienza, ma ora si veste di nuove esigenze, di una gioia di vivere alimentata dalle soddisfazioni della vita e mai spenta da una esistenza disordinata e complessa. L’interesse predominante degli anni precedenti, rivolto essenzialmente alla cultura dell’arte (spesso espressa attraverso omaggi e citazioni o nella forte concettualizzazione delle immagini e dei contenuti) si sposta ora sulla dimensione organica della natura, protagonista nella sua generosità (“Ciclo dell’acqua”, “Campi di pane”), nelle sue contaminazioni (“Architetture”), in forma primigenia o evocativa ( “Orto botanico”, “Ninfee”). Quella di Mario Schifano è sempre una natura rivisitata, un “naturale sconosciuto” come dirà lo stesso artista: nessun di quei segni che possono essere fiori, erbe, che potrebbero essere qualsiasi cosa vegetale, ha una somiglianza con ciò che esiste in natura. Una natura ignota, rivelata attraverso l’artificio della pittura.


Gratificazione di una vita è sempre stata per Schifano il suo immolarsi sull’altare dell’arte, nel rito continuo della creazione, esercitato con una passione che annulla ogni pretesa di serialità; una pretesa che è solo un modo per parlare, ancora una volta, di altro, per non affrontare la complessità dell’interpretazione della sua opera. La serialità è per Schifano (cosa che possiamo dire per pochi, pochissimi, altri artisti), ripetizione creativa, ovvero interpretazione di sé e della propria idea, volontà di affermare un concetto che si arricchisce con la conoscenza; come un virtuoso di uno strumento, Schifano ritorna sul “brano”, sul “pentagramma” per lavorare sul particolare, sulla variazione minima che è poi l’anima dell’invenzione che si ripete ad ogni esecuzione, con quel brivido nuovo dettato dal momento, dall’atmosfera; è attraverso la musica che capiamo meglio il gesto di Schifano. Non a caso determinante sarà per lui l’amicizia con Ettore Rosboch, con il quale strinse una profonda amicizia animata proprio dalla stessa, smisurata, passione per la musica (e per il cinema). Ed è proprio grazie ad esso che conoscerà è stringerà amicizia con i Rolling Stones eriuscirà a fondare la band “Le stelle di Mario Schifano”, avviando così una stretta collaborazione con i musicisti Giandomenico Crescentini, ex bassista dei New Dada, il chitarrista romano Urbano Orlandi, il tastierista Nello Marini, ed il batterista alessandrino Sergio Cerra dei quali gestisce l’indirizzo musicale e la regia dei concerti trasformandoli, per un paio d’anni, in uno degli esempi più alti di musica psichedelica italiana ed internazionale. Ma questo è un altro discorso, come i tanti che si potrebbero aprire per e su Mario Schifano. Dicevamo della serialità di Schifano e ripetiamo: accusa superficiale. Ancor più se analizziamo le decine di cicli, di tematiche (dai “Paesaggi anemici” alle serie dedicate ai marchi pubblicitari, dai “Monocromi” alle “Vedute interrotte”, dagli “Estinti” alle “Palme”, dagli “Alberi della vita”, ai “Fiori”, ai “Campi di pane”...), di stili, di tecniche, sino a quelle opere realizzate, in anticipo sui tempi, utilizzando immagini elaborate al computer e poi riportate su tele emulsionate, il tutto sempre con quel particolare carattere pittorico che è marchio e cifra del lavoro di tutta una vita.

‘90.  Il linguaggio si diversifica ancora, le immagini scorrono a forte velocità; fotografia, tecniche grafiche e tecniche pittoriche si susseguono e confondono rivelando l’ansia di un artista che raccoglie ogni frammento per conservarlo nell’immenso catalogo della vita. Aleggia una commozione infinita nella stagione creativa dell’ultimo Schifano, che il disordine e i disastri della sua vita non sono riusciti a cancellare. Vi sono aperture a fatti di cronaca, visioni geopolitiche espresse in carte geografiche in continuo mutamento. La natura primigenia emerge invece dalla sua poetica nel ciclo dei “Reperti” in cui vive tutto un immaginario preistorico che di li a poco esploderà nel cinema di fantascienza. Il ritorno all’immagine televisiva, infine, rielaborata al computer per neutralizzarne l’aspetto conformistico, rivela ancora una volta, l’interesse per i linguaggi del tempo.
E’ la stagione che traghetta - per mezzo dell’arte - il suo sguardo innocente e profondo da una generazione all’altra: da quella del padre archeologo, sino a quella del figlio Marco. “Io vivo nel presente e nel futuro”.


Mario Schifano è sempre stato un prestigiatore del colore e per questo più che per ogni altra cosa merita quell’aurea di leggenda di cui è stato ed è tutt’ora protagonista e vittima al tempo stesso. La mostra di cui questo catalogo è testimonianza, coordinata dall’intelligenza e dalla sensibilità di Ermenegildo Frioni, la cui signorile riservatezza lo ha visto e lo vede protagonista in punta di piedi di tanti importanti eventi, propone, insieme alle opere più note, sia i cicli realizzati per formidabili commissioni sia opere di più intima scaturigine. Tra queste le opere messe insieme nel 1995 per il Centenario del Cinema (1895-1995) a cui nessun artista avrebbe potuto fare omaggio più convinto: lui che già nei primi annirealizzava i suoi primi film in 16 mm, che lo renderanno figura centrale del cinema sperimentale italiano e che nel 1967 produsse quella “Trilogia per un massacro” formata da tre lungometraggi a cui collaborarono, tra gli altri, Carmelo Bene, Sandro Penna Mick Jagger, Keith Richards. E ancora, le tele vivide di naturalezza e di una spontanea tranquillità dedicata a Sabaudia e al suo mare, a quel luogo cioè, come affermò lo stesso artista, dove “sono nate le idee per i paesaggi italiani, astratti e concreti” e dove tra le dune e il mare si consolidò l’amicizia tra l’artista, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. ‘70‘80‘90 non è una mostra esaustiva, come difficilmente - del resto - potrebbe essere una mostra dedicata a Mario Schifano. E non lo è questo testo, la cui brevità non potrebbe abbracciare una produzione tanto vasta e diversificata. E’ un ritratto inquieto fissato nel ricordo e nell’intenzione, la cui carica narrativa trova la sua concisa efficacia nel percorso attraverso cui si snoda: opere, come scrive Ermenegildo Frioni (vero e sincero amico dell’artista) nel breve e commosso intervento scritto per questa occasione, che ritraggono il genio e l’esperienza di un uomo “generoso col mondo fino alla propria autodistruzione”.

Marcello Palminteri

in Mario Schifano. '70'80'90
a cura di Ermenegildo Frioni, Marcello Palminteri
catalogo della mostra omonima
Centar Savremene Umjetnosti Crne Gore
Dvorac Petrovica, Podgorica (MONTENEGRO)
2 giugno - 2 luglio 2015


 
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