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GIORGIO DE CHIRICO
ALLA PROPRIA "MANIERA"

 

Tra le personalità che hanno operato in quel trentennio cruciale per la storia dell’arte del Novecento, quella di Giorgio de Chirico è sicuramente una delle più interessanti. All’apparenza la meno sfaccettata tuttavia la più moderna e rivoluzionaria nella sua capacità di spalancare ipotesi e territori di esplorazione; una personalità persino paradigmatica rispetto alle contraddizioni in cui si muove e si sviluppa, ovvero nel clima mobile di situazioni e contesti assai differenti e contrastanti, certamente lontani da possibili adeguamenti perché in folle corsa verso rinnovamenti linguistici e formali incapaci di individuare un punto di equilibrio. È il clima e la dinamica delle avanguardie storiche, quel castello di sabbia tenacemente difeso, che crolla di volta in volta alle novità, al susseguirsi verticale degli eventi, secondo quella vertigine irripetibile che ha contraddistinto i primi decenni del secolo. Nell’intero arco temporale in cui si dipana la produzione di Giorgio de Chirico abbiamo invece una totale fedeltà ad una personale poetica che non è - si badi bene - rinuncia a nuove scoperte ma un riflettere sulle cose ed un ritornare alle proprie convinzioni dopo un errare eclettico per curiosità intellettuale e sete di conoscenza. Giorgio de Chirico è l’artista che “accorda” le molteplicità dei riferimenti artistici alla propria “maniera”, ovvero ad una visionarietà moderata, surreale nell’esito, per lo spiazzamento che produce, ma apparentemente reale nel corpo architettonico o nella struttura di ogni cosa che rappresenta. Questa la Metafisica, quel soggiornare tra vero ed irreale, su una impossibile realtà o una irrealtà possibile, che è l’assunto straordinario di una corrente che sin dal suo apparire (le opere che ne certificano la nascita appaiono intorno al 1910) non ha mai smesso (e tutt’ora non smette) di influenzare le traiettorie dell’arte. Influenze che portano sì al surrealismo (di cui de Chirico è antesignano), ma lo superano per esito e durata, abbracciando pittura e scultura, letteratura e cinema e, soprattutto, urbanistica e architettura, come ben sanno architetti come Ernesto Lapadula, Angiolo Mazzoni, Arnaldo Dall’Aira e fondamentalmente gran parte dei razionalisti italiani e non solo. Per questo possiamo considerare la pittura metafisica, grazie anche alla produzione degli artisti vicini a Giorgio de Chirico come il sommo fratello Andrea (Alberto Savinio), Carlo Carrà e Giorgio Morandi, un asse portante di tutto il Novecento, una via maestra, rivelando nello specifico, la genialità di un pittore tutto d’un pezzo, alieno ai proclami e incline a privilegiare l’autonomia espressiva, la compiutezza formale e la lezione della storia. Complice certamente la singolare biografia: nato in Grecia da genitori italiani appartenenti alla nobiltà (il padre Evaristo è figlio del barone palermitano Giorgio Filigone de Chirico, la madre è la baronessa di origini genovesi Gemma Cervetto) vive la prima giovinezza tra Volo (dove nasce nel 1888) ed Atene per poi trasferirsi, intorno ai diciassette anni, in Italia, tra Venezia, Milano e Firenze, fatto salvo un periodo a Monaco di Baviera, dove studierà all’Accademia di Belle Arti e si dedicherà allo studio di Arnold Böcklin e Max Klinger, leggendo inoltre con grande interesse Nietzsche, Schopenhauer e Weininger, che saranno di impulso fondamentale per la sua formazione. E in effetti, parallelamente all’incidenza filosofica, tutta l’opera di de Chirico è pervasa dai luoghi della giovinezza, le valli greche, le rovine, le piazze fiorentine e, ancora, Ferrara (dove conoscerà Carrà e De Pisis), Roma, Venezia e Torino, città su cui possiamo leggere un illuminante scritto:
“Lo straniero, per poco che sia innamorato cotto di cultura estetica, e che per la via, per le rotaie o per il mare si accinge a visitare il paese ove fiorisce l’arancio, ha ben altre mete: Venezia, Firenze e quelle piccole città dell’Umbria e della Toscana, mecche degli amatori di primitivismo, di purezza e di spiritualità. Eppure Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante non solo d’Italia ma di tutto il mondo. Colui che per primo scoprì l’ermetica bellezza di Torino fu un poeta-filosofo tedesco d’origine polacca: Federico Nietzsche. Fu il primo a sentire l’infinita poesia che si sprigiona da questa città tranquilla ed ordinata, costruita in una pianura adorna di dolci colline, di parchi romantici, di castelli e di palazzi solenni. Si estende sulle due sponde d’un fiume che scorre lento, ora grigio, ora azzurro, come scorre la vita del mondo e degli uomini. È stato Nietzsche che per primo indovinò l’enigma di quelle vie diritte, affiancate da case rette da portici sott’i quali, anche con tempo di pioggia, si può passeggiare tranquillamente con i proprî amici, discutendo d’arte, di filosofia e di poesia, al riparo, tanto dell’acqua del cielo, quanto, durante l’estate, dei raggi troppo ardenti del sole. Torino è la città delle amicizie peripatetiche. È là che nascono quelle amicizie purissime, quelle amicizie platoniche, che ci empiono il cuore d’una gioia senza macchia, ci danno una premessa d’eternità e di cui si può trovare una eco nelle melodie di Chopin e nella pittura di Paolo Veronese. La bellezza di Torino è difficile a scorgere; talmente difficile che fuori di Nietzsche e di me stesso non conosco nessuno che se ne sia preoccupato finora.”

Il percorso dechirichiano è ininterrotto in tutta la sua parabola creativa, non presenta cedimenti. Dalla Metafisica alla Neometafisica il passo è breve e dimostra un inflessibile rigore lineare che rappresenta, visto da una giusta distanza critica e senza ideologizzazioni di parte, la cifra interna di tutta l’opera di Giorgio de Chirico, il metodo coerente del suo procedere. Come scrive acutamente Lorenzo Canova, “(de Chirico) a partire dal 1968, ha costruito il sistema pittorico ‘altro’ della neometafisica, dove la rielaborazione delle sue creazioni non si contraddistingue come una semplice (anche se sempre splendida) replica del passato, ma come un nuovo e luminoso periodo di creazione in cui il Maestro ha riletto e interpretato la sua stagione metafisica giovanile contaminandola con l’immenso apparato iconografico delle sue opere degli anni Venti e Trenta per ottenere nuovi risultati.”
Il ritorno ai temi del primo Novecento trasporta l’artista dall’ambito dell’invenzione a quello dell’interpretazione, cioè dell’approfondimento, che è in questo caso il segno di una volontà di confronto con la pittura e con se stesso, con la storia di chi sa di essere storia e presente. Un percorso di slittamento che non è un limite quanto una azione intima di rinnovamento nel rito della pittura, a cui non si chiede soltanto novità, ma fedeltà.
Del resto la grande inventiva di de Chirico vive nel persistere dei cicli, dalle “Piazze” ai “Manichini”, dai “Cavalli” ai “Gladiatori”, dai “Bagni misteriosi” agli “Interni”, dai “Mobili nella valle” ai temi mitologici, dai ritratti alle nature morte, sino ai grandi lavori di illustrazione letteraria (“I promessi sposi”, “L’Apocalisse”, “L’Iliade”). L’opera di de Chirico è - senza tema di smentite - feconda, priva di pregiudizi e fornisce sempre nuovi sinonimi, una grammatica di base su cui ripensare la pittura; recuperando, in modo inatteso, dimensioni in cui la semplificazione formale del segno e dei volumi, escludendo le declinazioni tragiche sembra portarsi verso un versante teatrale o operistico, in cui i personaggi si
muovono secondo un impulso musicale. Del resto la musica ha per Giorgio de Chirico un ruolo fondamentale (il fratello Alberto Savinio era anche un significativo compositore, oltre ad essere stato pittore e scrittore tra i maggiori del Novecento) e notevoli sono i suoi contributi scenografici in opere di repertorio (Puritani, Orfeo, Mefistofele), ma soprattutto in opere di quei compositori italiani, della cosiddetta “Generazione dell’Ottanta” (Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Ildebrando Pizzetti), che hanno subito, per molti versi, a partire dal dopoguerra, la stessa superficialità di analisi critica riservata alla produzione neometafisica dechirichiana e che invece oggi possono dimostrare tutta la loro straordinaria modernità, avendo precorso - come scrive ancora Lorenzo Canova a proposito di de Chirico - “un discorso del tutto differente che apre alla visione dell’arte che sta segnando il panorama attuale nell’idea di ‘remixaggio’ e ripensamento fecondo del passato (...) in una chiave diversa, anticipando infatti uno dei tratti salienti dell’arte odierna.”
Tornando a questa mostra, ospitata nel meraviglioso complesso della Chiesa dei SS. Apostoli di Nola da poco riportata all’originario splendore, consci dell’impossibilità di poter trattare in maniera esaustiva il lavoro del Maestro (nel caso di questo scritto per ragioni di spazio, nel caso della mostra per la difficoltà oggettiva di reperire opere), si è tentata una selezione di disegni, grafiche e dipinti, capaci di definire, se non una “figura”, almeno una “lunga ombra” (come è caro all’artista), nella certezza di offrire, anche dalla provincia, uno stimolo all’approfondimento ed alla conoscenza di un capitolo straordinario e mai terminato della pittura italiana.


Marcello Palminteri

in Giorgio de Chirico. Apollineo e dionisiaco
a cura di Ermengildo Frioni, Pasquale Lettieri, Marcello Palminteri
catalogo della mostra omonima
Chiesa dei SS. Apostoli, Nola (NA)
18 febbraio - 18 marzo 2017
Edizioni Friarte


 
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