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ALBERTO DE BRAUD


 

Il rapporto con l’arte di Alberto De Braud è felicemente condizionato dalle qualità di scultore che possiede e dalla capacità di gestione degli spazi dove muove le sue opere. La chiarezza compositiva, la politezza delle strutture, la straordinaria invenzione formale a cui l’artista perviene permette di valutare ogni suo lavoro non come materia inerte ma come materia animata dalla quale l’atto compositivo esprime la sua curiosa ed intelligente vitalità, facendone il punto di forza, l’epicentro di ogni possibile interpretazione concettuale. Tra omaggio e irriverenza, la scultura di De Braud appare spesso come un condensato di processi piuttosto che una rappresentazione fissa, anche in virtù della sua propensione installativa: basata essenzialmente su tecniche tradizionali (bronzo, ferro, ceramica, terracotta) si presenta sì in forme inequivocabili, eppure carica di una speciale trasparenza che mutua la compiutezza in apparenza. Questo è uno degli elementi che rende il suo corpus creativo speciale stimolante, soprattutto per quella capacità di coniugare, in un’unica espressione, mestiere e sperimentazione, in un fulcro che annulla le sterili contrapposizioni tra storia e gesto contemporaneo. L’immediata riconoscibilità degli oggetti, aperti a metaforici intrecci di relazioni visive fanno da traccia ad un percorso simbolico in cui la meta è il punto intermedio tra memoria individuale, collettiva e storica. La linea di confine tra tradizione e innovazione appare come un debole e fastidioso ricordo rispetto alla complessa sfaccettatura di un personaggio tanto intensamente sfuggente e provocatorio: così Alberto De Braud connota una ricerca che invita a riflettere sulla continuità che l’arte opera all’interno della cultura e della formazione della comunicazione. Una pratica che avvolge tutta la sua opera la quale si propone come modello di linguaggio privo di dimensioni e limitazioni, sia di senso che di tempo. Si tratta di un sistema capace di porsi come una realtà a se stante e mai come codice di strutture predefinite; un superamento delle barriere per raggiungere luoghi in cui l’unica logica rimane quella di una persistenza immaginativa e di lavoro dove è naturale percepire la volontà di realizzare linguaggio e comunicazione con rinnovate tensioni; una vitalità necessaria che solo l’arte può offrire e realizzare e che De Braud agita nel solco di una eleganza formale ricondotta ad estro. Su tutto, poi, il pregio della polimatericità e delle policromie (non a caso la ceramica è uno dei materiali prediletti) che permette il concretizzarsi di progetti sviluppati in multidirezione: oggetti ripetuti e trasformati in cui la proliferazione di associazioni di senso dettate dal suo vocabolario, rivela l’essenza delle cose al di là di ogni atteggiamento retorico. La presenza singolare di un artista come Alberto De Braud nel panorama non solo nazionale (lunga la sua permanenza americana e successivamente francese, prima del rientro a Milano, città dove è nato nel 1959) è connotata, certamente, dalla sua impossibile classificazione, dettata dall’apparente difformità delle strutture visive a cui perviene, dalle geniali distorsioni stilistiche che caratterizzano il suo iter creativo in cui l’osservatore più attento e smaliziato deve saper riconoscere il sunto di uno sviluppo coerente di ideali e concetti che sono la vera cifra stilistica del suo lavoro. Un lavoro che agisce in una direzione vagamente onirica, allucinata eppure lucidissima; una dimensione che teatralmente potremmo definire “tragicomica” dove emerge il senso occulto del quotidiano. Oggetti troppo piccoli o, più spesso, troppo grandi per essere considerati “giocattoli” (Chiodo, 1998, bronzo, 110x40x9 cm; DNA, 2001, ceramica, 350x160x116 cm; Le pinces à linge, 2007, 17x3x2,5 m) restituiscono, al di là di un primo sorprendente incontro, un forte senso di ambiguità. Proprio attraverso l’enfatizzazione consapevole della contraddittorietà si svela il valore della stilizzazione ironica e della finzione, esibita ai livelli più intensi, ponendosi come metafora del coinvolgimento del pubblico che queste opere presuppongono. Ecco allora che la contaminazione stilistica e il susseguirsi di peculiarità espressive differenti si concentrano in una grammatica personale che fagocita e reinventa l’oggetto, nel quale si condensa capacità e trasgressione e dove l’ironia recupera l’allusione come valore creativo.

Marcello Palminteri


in AreaArte, n.10, estate 2012, Martini Edizioni, Thiene


 
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